Il giorno della memoria 2014

Bambini senza famiglia

L’universo cui appartiene l’esperienza da me condotta è quello dei bambini senza famiglia, su cui esiste una letteratura molto significativa a partire dai tre saggi di Anna Freud: Bambini in tempo di guerra (1942), Bambini senza famiglia (1943) e Un esperimento di educazione di gruppo (1951). Quest’ultimo analizza i comportamenti di un gruppo di bambini sopravvissuti nel campo di concentramento di Theresienstadt, dove erano cresciuti nascosti, senza i genitori né altra figura di adulto con loro. E mette in evidenza come in quel piccolo gruppo, che “si era educato da sé”, la bambina che copriva il ruolo di leader proteggeva il bambino più debole.

Più in generale, quella cui partecipa Anna Freud è un’esperienza unica nella storia: di fronte alla minaccia dei bombardamenti nazisti, il governo britannico organizzò lo sfollamento di migliaia di bambini dalle grandi città in campagna, ospiti sia di famiglie, sia di appositi centri residenziali. E’ così che si formarono numerose comunità di bambini senza genitori, che arrivarono a durare anche quattro anni, e per la prima volta nella storia si sono potuti osservare i comportamenti di quei bambini e capire sia cosa è necessario a un  bambino  per svilupparsi normalmente, sia cosa bisogna fare quando dei bambini sono separati dalle loro famiglie per lungo tempo.

In quella realtà si trovarono a operare anche Donald Winnicott e John Bowlby, che gestirono il progetto del governo nella sua interezza e complessità. E’ da questa incredibile esperienza che originano  le loro teorie, che permeano tutta le seconda metà del ‘900 circa lo sviluppo del bambino e la sua sanità psicofisica. John Bowlby continuerà a occuparsi di bambini senza genitori per tutta la sua lunga vita:

“Dopo la guerra scelsi come campo di studio specifico il trasferimento di un bambino dall’ambiente familiare a un asilo residenziale o in un ospedale, e non più il vasto campo dell’interazione genitore-figlio. Per prima cosa ritenevo che eventi di quel tipo potessero avere gravi ripercussioni patologiche sullo sviluppo della personalità del bambino. In secondo luogo si tratta di eventi indiscutibili, mentre, per ottenere informazioni valide su come un genitore tratta un  bambino, ci si scontra con forti difficoltà.”

Per Donald Winnicott, che si è occupato soprattutto del rapporto del bambino con l’oggetto e col gioco, nel caso di bambini ospiti di comunità, è terapeuticamente molto importante la figura dell’educatore:

Per occuparsi in modo appropriato di un bambino, ci vogliono degli esseri umani, e questi devono essere di un certo tipo. Si tratta di occuparsi bene di un numero ristretto di bambini… un lavoro perché sia buono deve avere un carattere personale, altrimenti assume toni crudeli e confusivi sia per l’operatore sia per il bambino. Il lavoro merita di essere compiuto solo se è personale e se coloro che lo compiono non ne sono schiacciati. Solo persone sufficientemente sicure di sé da poter essere se stesse e agire in modo spontaneo, sono in grado di comportarsi anche in modo costantemente coerente. Inoltre, gli educatori vengono sottoposti a una prova talmente dura da parte dei bambini che arrivano nelle comunità, che solo quelli tra loro capaci di essere se stessi sono anche in grado di reggere alla tensione. Consideriamo importante anche che gli educatori dispongano di certe capacità: nella musica, o nel disegno o nella ceramica e così via. Ma, naturalmente, è indispensabile soprattutto che gli educatori amino realmente i bambini, perché solo l’amore li aiuterà nelle alterne vicende della vita di una comunità. Ci sono individui brillanti che organizzano bene una comunità e poi la lasciano per passare a un’altra e fare lì la stessa cosa; per quanto riguarda i bambini sarebbe meglio che queste persone non fossero mai nate.”

E’ nelle comunità infantili, organizzate in modo che i bambini possano esprimere e soddisfare i propri bisogni quanto più autonomamente possibile, che agli adulti, interagendo con loro con spontaneità e coerenza, è possibile scoprire valori di cui il bambino è portatore e che rimangono irrealizzati in condizioni normali, cioè in famiglia. Su questo rimando alla lettura di alcuni capitoli del libro La mente del bambino, di Maria Montessori, sulla comunità infantile intesa come “embrione sociale”.

“Giustizia e benevolenza”, Enrica Baldi, in Cooperazione internazionale allo sviluppo e tutela dei diritti umani, Angela Di Stasi, Rubbettino, 2007

Vedi anche:

Da Fiume ad Auschwitz storia di tre bambini

Dare un nome ai volti della Shoah, togliendoli a quella nube nera e anonima in cui vengono percepiti e accumulati, ci restituisce tutta l’enormità di quell’esperienza: con gli occhi di chi l’ha vissuta l’attraversiamo. E’ per questo meccanismo che le storie di Andra, 4 anni, Tatiana Bucci (intervistate poi da grandi) e Sergio De Simone, 6 anni, due sorelle e un cuginetto, tre bambini ebrei italiani portati da Fiume ad Auschwitz nel marzo 1944 e tolti ben presto alle proprie madri, non sono uguali a nessun’altra, e il merito di averle ricostruite e ben raccontate va a Titti Marrone (Meglio non sapere, Laterza, pagg. 147, euro 12). Un giorno la blockova, la guardiana del blocco di questi e altri piccoli separati dai genitori, avverte le bambine per cui ha una certa simpatia: «verranno degli uomini, raduneranno voi bambini e vi diranno: chi vuole vedere la mamma e tornare con lei, faccia un passo avanti. Voi dovete rimanere fermi al vostro posto» gli dice. Era il metodo per prendere i piccoli senza dover affrontare pianti, rifiuti, rivolte e ucciderli o farne delle cavie. Andra e Tatiana non si muovono. Sopravviveranno ad Auschwitz tra mucchi di cadaveri, dimenticheranno quasi l’italiano, dopo la liberazione saranno portate prima a Praga e poi accolte a Lingfield, in Inghilterra, insieme ad altri bambini orfani reduci dalla Shoah, dall’amorevole e intelligente Alice Golderberg, una psicoterapeuta collega di Anna Freud: solo lì alle due sorelline tornerà, a poco a poco, il ricordo. Riconosciute dal numero sul braccio, riabbracceranno nell’agosto 1946 la madre Mira, a sua volta sopravvissuta tra molte peripezie, e il padre Giovanni Bucci, non ebreo, passato attraverso i lavori forzati nel campo di Dortmund…

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Vedi anche:

Il giorno della memoria 2013

Giorno della memoria: i bambini d’Izieu

27 gennaio 2011: Giorno della memoria

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