Gabriela Mistral

7 aprile 1889

Si deve a Gabriela Mistral, la grande poetessa cilena, il primo Nobel all’America Latina. Maestra di un altro futuro Nobel, Pablo Neruda, Gabriela nasce nel villaggio di Vicuña, sulle Ande. A quindici anni inizia a lavorare come maestra rurale. Pubblica la prima raccolta di poesie nel 1912 e presto la sua fama si diffonde in tutto il Cile. Nel 1925, dopo la pubblicazione di tre successive raccolte, lascia l’insegnamento e inizia a viaggiare in rappresentanza della cultura cilena. Ma è ancora sconosciuta ai più, quando nel 1945 viene insignita del premio Nobel per la letteratura: lei, una maestrina rurale di stirpe india! Ma la forza della sua poesia era quello di cui il mondo aveva bisogno per ricostruirsi dopo la seconda guerra mondiale.

Continuò a viaggiare, ambasciatrice della cultura del suo paese nel resto del mondo, dando conferenze e insegnando in varie università in America e in Europa. Muore a New York nel 1957: l’Assemblea delle Nazioni sospende la sua seduta e il governo degli Stati Uniti offre un aereo speciale per riportarla in Cile, dove il governo decreta tre giorni di lutto nazionale e centinaia di migliaia di persone vanno a offrirle l’estremo saluto. Per sua volontà, viene sepolta nel cimitero del paesino sulle Ande in cui aveva insegnato.

Giorno, giorno dell’incontrarci,

tempo chiamato Epifania.

Giorno tanto forte che giunse

colore di midollo e ardore,

senza frenesia sui polsi

ch’eran tumulto e agonia,

tranquillo come lo è il latte

delle mandrie con sonagli.


Giorno nostro, per quale strada,

senza piedi, sarà giunto,

che non sapemmo, che non vegliammo,

che nulla ce lo annunciava,

che noi non fischiammo ai colli

e senz’orma egli veniva!


Sembravano tutti uguali,

e di colpo maturò un giorno.

Era uguale a tutti gli altri,

come sono canne e olive,

e a nessuno dei fratelli,

come Giuseppe, assomigliava.


Sorridiamogli tra gli altri.

Abbia statura su tutti i giorni,

come il bue di grande corpo

ed il carro delle messi.

Lo benedicano le stagioni,

i Nord e i Sud lo benedicano,

e suo padre l’Anno lo scelga

e lo faccia albero della vita.


Non è un fiume né un paese,

né un metallo: si chiama un Giorno.

Tra i giorni delle gru,

delle sartie e delle trebbie,

tra macchine e fatiche,

nessuno lo nomina e guarda.


Balliamo tutti pronunciandone il nome

per ricompensa di Chi lo fece,

per gratitudine di suolo e d’aria,

pel suo zampillo d’acqua viva,

prima che cada come favilla

e calce che verrà macinata,

e si versino nell’Eterno

tutte le sue meraviglie.


Cuciamolo nella nostra carne,

nel petto e nelle ginocchia,

le nostre mani lo accarezzino,

i nostri occhi lo distinguano,

e c’illumini la notte,

ci conforti lungo il giorno,

come la canapa delle vele

e i punti delle ferite!

Altri articoli in cui parliamo di lei:

8 marzo: Festa della donna


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