Giornata della terra: Il vecchio castagno

Questa poesia corrisponde alla concezione che Maria Montessori aveva dell’educazione cosmica, vera finalità del processo educativo, in cui il bambino, la bambina, percepisce se stesso, se stessa, all’interno di un sistema di interdipendenze reciproche in cui ogni specie vivente è legata all’altra da un rapporto di collaborazione reciproca, volta a preservare l’armonia dell’universo. Ed è significativo che Pascoli elegga a depositaria di questa missione Violetta, una bambina.


Il vecchio castagno


E Viola tornò per coglitora,

dopo sementa, dal suo zio d’Albiano.

Ed ecco, i cardi non cadeano ancora.

E dava nel frattempo ella una mano

all’altre donne, e lungo il Rio con esse

facea brocche di càrpino e d’ontano.

Ora sfogliava le seconde mèsse,

dei gelsi, ora segava erba e trifoglio,

che la brinata non gliele cocesse.

(…)

Ed ella andava qualche volta a farne

per loro, e qualche volta, ch’era bello,

menava là le vaccherelle scarne.

E con loro godeva il solicello

di fin d’ottobre, tra i castagni, sotto

il re di tutti, un vecchio mondinello.

Sotto il re dei castagni, sur un grotto

pieno di musco, si sedea Viola,

col gomitolo, i ferri e un calzerotto.

E gettava alle bestie una parola,

anco un toffo di terra, anco due ghiare

con le sue mosse di canipaiola.

Ora un giorno che stava a lavorare

sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi

pendean le vacche dalle stipe amare,

dei tonfi udì, come se quei bastardi

fosser lì con sassetti e con pinelle,

chiotti, per darle briga… Erano i cardi.

Cadeano giù con le castagne belle

e nere in bocca, che sul musco arsito

ruzzolavano fuori della pelle.

Udiva; e il gran castagno ecco sul dito

le picchiò con un cardo, anzi un pallone,

piccolo, giallo, chiuso. Era un invito:

l’albero volea dir la sua ragione.

Alzò Viola, come se capisse,

gli occhi, poi li voltò: vide un piccone;

vide un’accétta. E il vecchio re le disse:

le disse il re:

I

…Viola!… Violetta!…

Non la vedi costì? C’è da stamani.

Ce l’ha lasciata il caro zio. L’accétta!

La piglia su, domani, oggi, a due mani,

e picchia giù. Dove ella picchia, guai

a quei frassini! tristi quelli ontani!

e quei castagni! Non credevi mai,

Violetta? Lo credo! Ero il più grande!

Sono il più vecchio. Ella è per me: vedrai.

Si sa: la quercia deve dar le ghiande,

e il fico i fichi, ed il castagno i cardi.

Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!

E i cardi son più pochi, ora, e se guardi,

non son più pieni, ch’io non ho più forza.

Io ho la lupa. Ho messo poco e tardi.

Il vecchio re sente impassir la scorza!

II

E mi ricordo ch’ero il più piccino

del branco, quando venni qua; di tutto

quello d’allora. Io, sai, nacqui a bacino,

di là del Rio. Di là crescevo sdutto,

lungo, con molta frasca e molte polle.

All’ombra, messa tanta e poco frutto!

Qui, posto al sole, in cima in cima al colle,

mi dava noia, i primi anni, l’asprura.

Bramavo quel bel fresco, quel bel molle.

Ma poi con gli anni feci tiglia dura,

e il sole amai, che vaporava il fiato

nella florida mia capellatura.

A un fin di verno, un uomo col pennato

mi cuccò tutto per filo e per segno!

E io restai pulito e dicapato,

con due mazzette tra la buccia e il legno.

III

Vedi i due rami dalle mille vette,

anzi il doppio grande albero che porto

sul tronco? Sono quelle due mazzette.

Ché venne aprile, e io sentiva, assòrto,

dalle mie fibre risalire il succhio

cercando in alto ciò che m’era morto:

ciò che non era, là di lì, che un mucchio

di verghe dalla lunga acqua percosse,

cui s’attorceva l’ellera e il vilucchio.

Ma io sognava tuttavia che fosse

sopra il mio fusto, e che mettesse i fiocchi

verdicci dalle sue vermelle rosse.

Io mi spingeva tutto verso gli occhi

che non avevo; io mi gettava verso

il mio passato. C’era quei due brocchi.

Li empii di me: ma mi sentii diverso.

IV

Più dolce, o bimba, mi sentii: più manso.

Con gli anni feci le castagne. Alcuna

ce n’è nei cardi. Cerca. A te le canso.

Le canso a te, mia pastorella bruna

che vieni qui per cogliere, e due volte

in cielo fare qui vedrai la luna.

Son mondinelle; tu le sai, n’hai colte.

Mòndano bene. Esce da sé pulita

la carne, il buono, dalle vesti sciolte.

Tu le mondi per gli altri con le dita

svelte, seduta al fuoco, sul pannello.

Gli uomini stanno muti alla partita.

Quei giorni di novembre, che fa bello,

che si colma la botte del buon vino,

che, con indosso mezzo il suo mantello,

mezzo tra freddo e caldo è San Martino!…

V

Da quanti inverni vivo qui sublime!

E vidi tante creature bionde

venir su l’alba a cogliere le prime,

che poi con gli anni, esciti non so donde,

io li vedeva curvi bianchi tristi

ruspare lì, nei mucchi delle fronde,

l’ultime. All’ultimo, io non li ho rivisti.

Non ne so nulla. So che i coglitori

vengono e vanno, come tu venisti

e… Ma quello che sempre, ai dì peggiori,

anche ho veduto, sia che nella bruma

la pioggia scrosci e che la neve sfiori,

è il fiato che nell’aria fredda fuma

dalla lor casa, il caldo alito, quando

il vecchio tramontano anche lui ruma

qua ne’ frondai gridando e farfugliando…

VI

O fiamma allegra, che scricchioli e schiocchi,

scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi,

da noi li avesti cioccatelle e ciocchi!

O casa buona, messa su dagli avi,

che pari il freddo, e brilli nella notte,

da noi li avesti travicelli e travi!

O mamma, che il laveggio ora o le cotte

metti all’uncino o sopra i capitoni,

da noi li avesti i necci e le ballotte!

O babbo, che nel mezzo al desco poni

il vinetto che sente un po’ di rame,

da noi li avesti i pali ed i forconi!

E tu che mugli, mugli tu per fame

o per freddo, vacchina dello stento?

E da noi abbi i vincigli e lo strame…

mentre noi qui rabbrividiamo al vento.

VII

Io ne godeva. Io amo chi mi coglie.

Ora, capanna casa fuoco vigna,

non do più frutto né legna né foglie.

Ora l’accétta scoprirà maligna

i miei segreti. Ho dentro me dei bruchi

d’oro, che fanno, come uva, la pigna.

Aveva dentro, qua e là, nei buchi,

altri alati che nero di tra il musco

sporgeano il capo allo svolar dei fuchi.

Oh! da quanti anni sento nel mio rusco

sempre ronzare, e sempre nella state

cantarellare odo tra lusco e brusco!

Oh! scoprirà l’accétta, abbandonate

sopra lane di pioppi e ragnatele,

ovine acquide, avanzi di covate

di cinciallegre, e un gran favo di miele.

VIII

Quanto a me… Quanto a me, mi schiapperanno

per il metato. Prima lì nel mezzo

due ciocchi soli col pulacchio d’anno;

poi tutto v’entrerò pezzo per pezzo.

Le castagne seccate col castagno

vengono bianche e sono di più prezzo.

Ecco, il nostro fruttato io l’accompagno

anche in morte, morendo a poco a poco,

e di me l’uomo ha l’ultimo guadagno.

Mi sfarò piano, non sprizzerò fuoco

non farò vampa; adagio, come deve

un buon castagno vecchio che sa il giuoco.

Poi nel dì che si canta che si beve

che si picchia su l’aia del metato,

non sarò più. Sarò cenere, lieve

cenere, buona per il tuo bucato.

IX

E il ceneraccio, al prato!… Odimi. Il fusto

è marcio, e non può darsi che ributti.

Gli dia l’accétta e l’accettino. È giusto.

Ma vedrai, nella ceppa, che tra tutti

lo zio ralleverà qualche novello

che viva e cresca, che riscoppi e frutti.

Fa che salvi codesto, così snello,

che se tu venga quando avrai marito,

tu dica: È come il padre; anzi più bello!

Codesto, sì, costì, presso il tuo dito,

dove ho picchiato il cardo… Oh! tuo zio!… Digli:

Questo novello come cresce ardito!

che speriamo, io e tu, che mi somigli!

che dia su me, non dia su lui, l’accétta!

Ti farà le mondine pe’ tuoi figli.

Diglielo!… su… Viola! Violetta!


Giovanni Pascoli, Primi poemetti

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