Sotigui Kouyaté. Il Griot: dal narratore all’attore

Sotigui Kouyaté è un africano alto e sottile. Le sue fluide movenze verticali ricordano le figure dipinte all’interno delle piramidi; il suo sorriso è mutevole e invitante; i suoi occhi, sempre ben aperti sull’interlocutore e sul mondo. Sotigui è un Griot del Mali e Burkina Faso, discendente da una delle famiglie di Griot più antiche e autorevoli. Una traduzione letterale della parola “griot” è impossibile; sarebbe troppo  limitativa del suo significato e della sua funzione sociale. Nella nostra lingua, il termine più adatto a definirlo è  “maestro di parola”: la parola detta, la parola recitata, la parola cantata.

Nella società africana tradizionale il Griot è colui che può dire tutto: può dar voce alla collera del re verso i suoi sudditi e può riferire al re le loro lamentele. Può indagare e denunciare a voce alta gli inganni e i tradimenti dei regnanti affinché il popolo possa avere giustizia, ed è il consigliere più segreto del re. La sua è una parola che sempre consiglia, indicando l’azione e il comportamento più conveniente al benessere della comunità e del singolo. E’ “maestro di parola” in una civiltà che non ha fonti scritte: è quindi la memoria storica del suo popolo; dei suoi eventi, dei suoi re, delle sue conoscenze sull’essere umano e sulla natura.

La figura del Griot si sviluppa nella civiltà Mandingo: un popolo che, guidato dal re Sundyata, verso la fine del XII secolo invase l’Africa occidentale e ne sottomise le popolazioni; così come, cantano i griots, Alessandro il Grande si è mosso verso Est e ha conquistato  l’Oriente. Da dove provenisse il popolo Mandingo non è chiaro: probabilmente dal basso Egitto. E quali origini avesse, è celato dal mito: Sundyata è figlio di una donna che era stata bufalo un tempo e che, brutta e gobba, aveva sposato il re Mandingo per realizzare un’antica profezia, che la voleva donna e madre di un grande re.

E’ nel quadro di questa civiltà che i Griot nascono e da essa si diffondono: maestri di parola e padroni del suono. Infatti, accanto al racconto, è loro competenza esclusiva anche la musica. Quei complessi strumenti di legno, pelle, corda e zucca seccata, quando sono percossi dalle dita agili dei Griot, emettono suoni che sembrano penetrare nell’ascoltatore non solo attraverso l’udito, ma anche e soprattutto attraverso il corpo – i piedi, le mani, la pelle –  complici la terra e l’aria che ne sono i veicoli: un suono che entra nel sangue e che sembra determinarne il ritmo.

Il Griot è anche maestro del canto, perché la differenza tra parola detta e parola cantata è molto sottile, e nel racconto la voce continuamente passa dall’una all’altra. E come il suono dà, nel corpo, il ritmo al sangue, così il canto ha il ritmo di una voce che non nasce solo dalla bocca e dal torace, ma anche dalle ossa e dalla carne. Il canto sembra salire dalla terra, e il nostro corpo sembra essere solo un veicolo affinché quel suono trovi una voce: la nostra.

Il Griot è anche maestro di danza, di cui non ha però l’appannaggio esclusivo; tante sono le danze quanti i gruppi sociali. Ogni danza è legata a un gruppo, secondo il mestiere che esso svolge nella comunità: mestiere come specifico rapporto che ogni essere umano stabilisce col mondo della natura, al fine di trasformarne i doni per utilizzarli secondo i propri bisogni. Sono danze in cui c’è sempre anche un’offerta di scuse, una richiesta di perdono per l’inevitabile violenza che l’uomo opera sui frutti della terra e dell’aria. Così, la danza dei cacciatori e quella della conocchia, che in Africa viene eseguita solo dopo un’importante iniziazione; e così anche la danza dei guerrieri e quella dei cavalli, in cui il corpo si estende verso l’alto nella fierezza di essere uomo, e si inchina verso la terra nell’umile sottomissione del cavallo.

Ma la danza, come tutte le attività dell’uomo, è anche atto creativo individuale, e sempre c’è – al centro del cerchio – il momento dell’improvvisazione del singolo. Sono gli “a solo” scanditi dal ritmo vario e incessante dei tamburi, in cui ognuno lascia che il proprio corpo risponda a quei suoni e a quel ritmo; alle voci e al battito delle mani degli amici che lo circondano. Infine, danza è anche entrare, al suono ritmato dei tamburi, nelle forma essenziale di un animale – cavallo, scimmia, serpente, uccello… – e improvvisare in quello stato, che è a metà tra l’essere un uomo – o una donna – e essere l’animale prescelto; mai da soli, ma sempre accompagnati e sostenuti dagli altri.

Questo è quello che Sotigui Kouyaté, insieme ai figli Dani, Moussa e Prosper, nell’ottobre del 1991 ha insegnato nel corso organizzato da A.R.T.A. (Association de Recherche des Traditions de l’Acteur), tenuto nella sala prove de La Cartucherie nel bosco di Vincennes, presso Parigi. E’ stata la prima volta che questo maestro africano – famoso in occidente per essere uno degli attori più rappresentativi della compagnia teatrale di Peter Brook – ha dato i suoi insegnamenti in Europa. E la risposta è stata entusiasta. Sotigui rifiuta ogni forma di selezione e le iscrizioni sono state perciò semplicemente bloccate appena raggiunto il numero di 40 partecipanti, più che ragguardevole per un solo  insegnante. E raramente si è vista tanta attenzione, tanto rispetto e tanta disciplina in un gruppo tanto casuale.

La voce pacata di Sotigui, inesauribile nell’attenzione e nell’incitamento, e il ritmo dei tamburi dei suoi figli, scandivano ogni minuto delle sei ore giornaliere in cui era articolato lo stage; finché questo Maestro di Parola non veniva a sedersi anche lui nel cerchio per ascoltare i suoi allievi raccontare: giovani donne e giovani uomini bianchi che provenivano dai vari luoghi del mondo: Francia, Germania, Belgio, Italia, Olanda, Svizzera, USA, America Latina…  E tutti in cerca dei modi e dei gesti per quei racconti antichi che ogni sera, nei villaggi dell’Africa, la gente si riunisce per dire e ascoltare di nuovo.

E con delicatezza estrema e infinita pazienza Sotigui diceva a ciascuno ciò che da semplice spettatore aveva percepito nel suo racconto, e nella voce che l’aveva portato alle sue orecchie. E spiegava con calma – sapeva che per ciascuno era solo l’inizio di un lungo cammino – cosa vuol dire raccontare in tanti un’unica storia con un’unica voce e un unico corpo.

Enrica Baldi, stagière – Cartoucherie – Bois de Vincennes (Parigi) 2-30 ottobre 1991

17 aprile, In memoria.

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