Per non dimenticare… Yerevan

Vogliamo ricordare il 98° anniversario del genocidio degli armeni con uno dei tanti racconti di sopravissuti attraverso l’intervista ad Adel Faroyan, una giovane armena di Yerevan, transitata in Italia per specializzarsi in letteratura e lingue comparate. La storia dei suoi nonni è apparsa sull’Osservatorio dei Balcani e Caucaso il 24 aprile del 2010.

“Mia nonna Adel e mio nonno Gurghèn da bambini si ritrovarono soli al mondo. Erano gli unici delle rispettive famiglie sopravvissuti al genocidio. Ho combattuto per sapere il loro passato. Non ne parlavano mai. Se non a fatica, incalzati dalle domande dei figli, di mio padre Grigor e dei suoi fratelli. Che però pretendevano sempre meno, perché vedevano la sofferenza nel volto di mio nonno Gurghèn quando lo portavano a quella svolta del tempo. Bastava nominare Kharberd, dov’era nato, la sua città perduta, e anziché parlare, piangeva.

Il villaggio Kharberd prima del 1915

Mio nonno Gurghèn conservava dettagli dei momenti in cui aveva perduto i suoi familiari. Nell’aprile 1915 era il penultimo figlio di una famiglia numerosa. Suo padre Grigor con il giovane Hovhannes, il primogenito, erano stati chiamati sotto le armi, e nessuno li vide mai più, già prima della deportazione. Quanto agli altri fratelli, quell’ultimo giorno erano andati al lavoro nei campi. Lui bambino ricordava di aver trovato la casa improvvisamente vuota e di esserli andati a cercare. Ma nel campo li vide tutti morti.

In fuga da quella scena incrociò sua madre – sarebbe stata la mia bisnonna – Makruhì con l’ultimo nato in braccio, Surèn. Di loro tre, madre e neonato morirono lungo la strada durante la deportazione. Non sappiamo che cosa sia successo poi. Qualcuno vide un bambino da solo e lo portò con sé. Di chi salvò mio nonno Gurghèn e di come solo al mondo arrivò all’orfanotrofio americano di Gyumri, lui stesso non l’ha mai detto. Ma lì nell’orfanotrofio, a 15 anni, incontrò mia nonna Adel e la sposò.

Un paio di piccole scarpe con i tacchi, su misura per lei. Si vede che mia nonna le adorava, perché le portò con sé, nascoste in un sacchetto. Inservibile tesoro, per una bambina che fu deportata…  Adel restò in vita, ma senza più genitori né fratelli.
Non disse che cosa aveva visto. Sono mille le storie come la sua: si restava in vita per un caso, per un pezzo di pane, un po’ d’acqua, o per qualcuno che aveva pietà. Una nostra vicina si salvò, anche lei da bambina, per essersi attaccata alla coda di una vacca mentre la colonna di deportati guadava un fiume. Suo fratello invece non fece in tempo.
Molti anni dopo, con quelle scarpe infantili, nella nostra casa di Yerevan, giocavo io da piccola: senza sapere il loro valore, le mettevo per sembrare più grande. Finché interveniva mia madre: sono quelle di tua nonna, non devi toccarle! Oggi le custodiamo ancora.

Lei incontrò il suo coetaneo Gurghèn a 15 anni, se ne innamorò e lo sposò. Divenne infermiera in un ospedale, lui invece cominciò a lavorare come autista. Ebbero 12 figli. Uno è mio padre. Li chiamarono con i nomi di chi avevano perduto: Surèn, Makruhì, Adel, Grigor, Hovhannes. Sentirli risuonare in casa aveva davvero il valore di una presenza. E decisero di generare tanti figli per essere sicuri che i piccoli avrebbero sempre avuto accanto qualcuno nella vita.
In quanto famiglia numerosa, nell’Urss di cui l’Armenia era entrata a far parte, ebbero diritto agli appartamenti popolari che venivano costruiti e assegnati gratuitamente a Yerevan. Case piccole, scomode, dove entra poco la luce del sole. Lì abitiamo tutt’oggi.

Di mia nonna Adel a lungo conobbi un cognome che nei fatti era falso. Ero convinta che da ragazza si chiamasse Adel Matveevna. I figli, cioè mio padre e i suoi fratelli, sapevano che era di origine russa. Lei stessa li portò una volta in vacanza a San Pietroburgo, dov’era cresciuta da bambina.
Ma la vera identità la seppi molto più tardi: si chiamava Lapuchina. Un cognome aristocratico. Una Lapuchina era stata la prima moglie dello zar Pietro Il Grande. E ad una giovane Lapuchina il poeta Pushkin aveva dedicato una composizione. Ma dopo la Rivoluzione del 1917 era un nome pericoloso, da russi bianchi, da cui lei si era dovuta proteggere. Così mia nonna, pur sfuggita al genocidio, nell’Urss sarebbe stata al sicuro dalla sua storia sconvolgente solo con un nome inventato. E divenne Adel Matveevna.

E’ importante per me raccontare. Il ricordo rende tutti quei protagonisti persone vive, quando invece nel massacro sembravano perdute per sempre. Certo, di loro non abbiamo molto. Perché la memoria del loro passaggio è stata volutamente distrutta. Della stessa città di Kharberd, che mandava in lacrime mio nonno, non resta nulla dell’epoca. Fu completamente bruciata, casa per casa. Come diceva Kemal Pasha doveva restare solo un armeno e solo in un museo”.

Così finisce questa testimonianza che la nipote Adel ci ha autorizzato a pubblicare perché si parli di quelle atrocità, perché si sappiano queste storie tremende e soprattutto per non dimenticare.

Associazione della Comunità Armena di Roma e Lazio
www.assoarmeni-romalazio.blogspot.com

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